Quando si visita un luogo di montagna viene naturale lasciar correre la mente a come doveva essere la vita anni (o addirittura secoli) prima, antecedentemente all’arrivo del turismo. Come si trascorrevano le giornate? Quali erano le attività e i lavori cui erano dediti gli abitanti? Il Museo del Ferro e del Chiodo di Forno risponde a questi interrogativi e ci racconta come impiegavano la loro esistenza gli abitanti della Val di Zoldo, facendoci conoscere antichi mestieri che ormai sono praticamente scomparsi.
Si sa che in montagna la vita non è mai stata facile per gli abitanti: lunghi e rigidi inverni si susseguivano inesorabilmente uno dopo l’altro e la bella stagione calda durava assai poco; la siccità nei mesi estivi poteva mettere a repentaglio la fienagione e spesso le piene rabbiose dei torrenti spazzavano via intere case o addirittura paesi… Ben poco riuscivano ad allevare o coltivare in loco, molto spesso i generi necessari per il sostentamento arrivavano dalla pianura o dalle valli vicine, magari meno impervie e più di passaggio.
In Val di Zoldo i vari toponimi ci indicano subito che l’estrazione e la lavorazione del ferro furono una parte importante della storia: nell’ultima parte del Medioevo infatti è stata attestata la presenza di ben sette/otto forni, già però ridotti a tre e di nuova concezione (con due fusioni successive) rispetto a quelli precedenti. L’attività estrattiva passa poi in secondo piano rispetto alla lavorazione e la materia prima comincia ad arrivare più frequentemente dalle miniere del Fursil, presso Colle Santa Lucia (che allora era territorio asburgico): tra la seconda metà del Trecento e la prima del Cinquecento si colloca il periodo di massimo splendore della siderurgia zoldana, il cui 10% del totale era assorbito dall’arsenale della Repubblica di Venezia.
Successivamente, inizia purtroppo il lento ma inesorabile declino: con la chiusura dei forni di Fusine e Forno e poi quello di Dont, cessa conseguentemente anche la grande produzione; per continuare l’attività, gli operai si specializzano in piccoli manufatti: nasce così il mestiere del Ciodarot, il chiodarolo.
Il mestiere del chiodarolo di norma veniva trasmesso di padre in figlio e l’apprendistato avveniva frequentando le fucine si da bambini (si diceva che “al mestier bisognaa al robà”, il mestiere si doveva rubare osservando gli altri) si distingueva tra mìstro e batador. Quest’ultimo, più giovane ed inesperto, aveva il compito di aiutare il mìstro nella realizzazione di chiodi di grosse dimensioni, battendo con la mazza la verga sotto la sua guida.
Ogni chiodarolo organizzava autonomamente il proprio lavoro, che veniva svolto comunque in compagnia.
All’interno della fucina gli uomini stavano insieme per anni, facendo gruppo andando più o meno d’accordo e per far passare il tempo scherzavano, facevano battute, si prendevano in giro. L’attività iniziava all’alba e finiva al tramonto, con una pausa per il pranzo, quando le donne o qualche bambino della famiglia portavano da casa un po’ di polenta e ricotta, formaggio e salame. […] Per essere sufficientemente rapido e produttivo, il lavoro doveva essere rapido, ritmato, svolto con automatismo. Un bravo chiodarolo produceva sino a 500 brocche da scarpa in un giorno.(Tratto da: Museo del Ferro e del Chiodo di Forno di Zoldo – Guida)
Il Museo vuole quindi raccontare la storia del popolo zoldano, coi sacrifici che sosteneva e i ritmi frenetici della produzione… Un viaggio immaginario attraverso i secoli, con attenzione alla storia recente quando, complici anche i due conflitti bellici, il lavoro del ciodarot è tornato prepotentemente alla ribalta.
Entrati quindi nel bel cinquecentesco Palazzo del Capitaniato, un tempo abitazione del capitano (una sorta di delegato della Repubblica di Venezia in loco, scelto tra i nobili della città di Belluno) al piano terra si può assistere alla riproduzione di un filmato che ben esplica la vita dei ciodarot: attraverso il sapiente uso delle immagini, sembra quasi di trovarsi di fianco a questi artigiani e sentire il rumore dei colpi inferti come se si fosse lì presenti accanto a loro…
L’audiovisivo introduce magistralmente a ciò che ci aspetta al piano superiore: un grande open space con pannelli a tutta altezza ci guida attraverso i secoli, erudendoci sulle attività estrattive prima e su quelle di lavorazione e produzione poi. Sono esposti pregevoli pezzi e originali dei secoli XIX e XX (durante i quali il lavoro fu più intenso ed il commercio fiorente) quando i chiodaroli (considerati veri e propri artisti) scendevano verso Belluno e le pianure per vendere i propri manufatti lungo la tortuosa strada che collega la Val di Zoldo a Longarone, spesso a dorso d’asino o tirando carretti.
E proprio un carretto chiude l’allestimento, simbolo della mobilità che da sempre contraddistingue gli zoldani: terminata la produzione artigianale a causa dell’avvento delle industrie e del conseguente abbattimento dei costi, i ciodarot si riciclarono soprattutto come pasticceri, arte che già avevano appreso nei secoli precedenti. L’emigrazione verso il cuore dell’Europa ebbe inizio e, ad oggi, non si è ancora del tutto arrestata.
I più piccini potranno anche divertirsi a provare un maglio in miniatura, un tempo utilizzato per ottenere delle barre da un massello di ferro; non era presente in tutte le fucine (dipendeva infatti dal tipo di produzione che veniva effettuata) e comunque era utilizzato solo dagli artigiani più esperti, per via anche delle grandi dimensioni e dell’abilità che occorreva per farlo funzionare.
La ricca documentazione storica e la bellezza dei reperti esposti farà allungare decisamente i tempi di permanenza giacché ci troviamo all’interno di un percorso davvero dettagliato e coinvolgente: anche i bambini rimarranno entusiasti nell’ammirare le molteplici forme di chiodi e gli svariati usi del ferro (come, per esempio, i ramponi da far aderire alle scarpe), trasformando una semplice visita in un’esperienza didattica e costruttiva.
Vale assolutamente la pena di dedicare un paio d’ore al Museo del Ferro e del Chiodo: ci farà capire ancor più la storia e la tradizione locali e consentirà di guardare verso queste splendide montagne con occhi diversi, più consapevoli e disincantati.